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18,45

di Attilio Lauria

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“C’è un fiume che passa nel cuore di Roma” cantava Antonello Venditti, pensando al Tevere come ad un “cuore che batte nel cuore di Roma”. E così è da più di duemila anni, sin dalla fondazione mitologica di Roma, la più importante città dell’antichità sviluppatasi intorno a quel fiume, pulsante di attività economiche, culturali e sociali, oltre che principale via di comunicazione e di commercio con il resto del mondo. Certo, di tanto in tanto quello stesso fiume usciva dagli argini inondando e portando distruzione, ed è per questo che tra fine Ottocento e inizio Novecento furono eretti dei muraglioni a protezione della città, una straordinaria opera di ingegneria che nel proteggere ha nascosto e infine separato. Tanto che, parafrasando Neil Armstrong, di quei 18 metri e 45 di altezza dei muraglioni sabaudi si potrebbe dire che nel tempo hanno prodotto una separazione nel rapporto simbiotico fra la città e il suo fiume ben più enorme di quel “piccolo passo”. Ed è appunto a questa separazione che è dedicato il lavoro di Massimo Valentini, la cui foto di apertura - una delle lupe dell’artista statunitense Kristin Jones ricavate dai muraglioni per sottrazione di smog con sistemi di idropulitura e sabbiatrici - richiama significativamente la volontà di riappropriarsi del fiume e del suo rapporto con la città. Ecco allora che l’Autore adotta un punto di vista ormai inusuale per i romani, partendo per un viaggio che è anche un’analisi socio-antropologica dal livello delle acque del Tevere, sotto le ripe e i ponti della Città Eterna. Un livello dal quale la veste monumentale si confronta con la realtà quotidiana dei nuovi processi insediativi che riconfigurano le forme sia del tessuto urbano, che delle periferie. Perché se è vero che questo lavoro è la dolente presa d’atto di una cesura, è altrettanto evidente che ogni abbandono è al tempo stesso una storia di trasformazione. Quegli spazi nascosti alla vista sono diventati così gli spazi dell’indifferenza, dove trova rifugio tutta quella umanità con cui spesso le nostre coscienze non hanno voglia di fare i conti. Un’umanità precaria che fa dell’adattamento a condizioni estreme la propria quotidianità, e che senza quell’identità assicurata da un permesso di soggiorno è condannata all’invisibilità, costretta talvolta ad abbandonare precipitosamente anche le poche cose tenute con sé. Come un album di fotografie, che in condizioni del genere rivendica più che mai la propria preziosa funzione identitaria e memoriale: possiamo solo provare ad immaginare quale pena, insieme a tutte le altre difficoltà del vivere, debba aver provato chi ha perso anche quell’unico conforto.
Dunque “18,45 mt.” è una riflessione sulla città e le sue trasformazioni indagate attraverso una fotografia dai toni mai urlati che documenta pur senza rinunciare ad un punto di vista, riaffermato da un delicato intervento di post produzione in chiave narrativa. In questo prolungamento pasoliniano del racconto indiretto di un’umanità ai margini, il lavoro di Valentini sulle banlieues teverine attualizza un realismo della rappresentazione fotografica che riporta alla necessità di una grazia del vivere, iscrivendosi a quel filone narrativo del giovane cinema contemporaneo che racconta del “vizio della speranza”. Con la vita che intanto continua a scorrere intorno al fiume, proprio come l’acqua del fiume.

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